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Tamburo militare e grancassa - Il tamburello - Il doppio flauto - I zambareddi - I giganti e ”u cavagliucciu”

 

Il flauto di corteccia

 

E' un aerofono effimero la cui costruzione avviene soltanto in primavera, quando è possibile svitare la corteccia di alcune piante in vegetazione (di solito l’oleandro nelle zone prossime al mare e il castagno nelle zone di montagna) che devono essere molto giovani (di uno o massimo due anni di età). Da un tubo di corteccia , zeppato con un pezzo di legno tagliato dalla stessa pianta, viene ricavato un flauto traverso senza fori digitali (l’unica azione digitale è svolta dall’indice della mano destra che nel corso delle suonate spesso chiude l’apertura terminale dello strumento). Numerose sono le denominazioni locali di questo suggestivo flauto (la letteratura etnomusicologica lo chiama a volte flauto armonico, visto che le melodie si ottengono modulando gli armonici consentiti dalla sovrainsufflazione): liutu, frautu, frischiottu e castagnara, fischiettu i landrara etc…Bruno ha deciso di costruire flauti armonici con tubi di materiali sintetici che, meno poetici e meno stagionali della corteccia, al contrario di quest’ultima non sono soggetti a rapida essiccazione e garantiscono una lunga durata dello strumento da essi ricavato.

Tamburo militare e grancassa

 

Nonostante la persistente vitalità nella Calabria meridionale dei repertori legati all’organico formato da questa coppia di strumenti, che in numerose feste conserva una funzione rituale e processionale, la mancanza di vicini centri di costruzione ha costretto i tamburinari a rivolgersi alla produzione industriale.

 

E così, a parte qualche vecchio strumento in circolazione, le grancasse ed i tamburi odierni, suonati rispettivamente con un mazzuolo e con due bacchette, non sono più bipelli, secondo l’aggettivo che avevano loro associato gli organologi, ma “bisintetici”.rullante e cassa

 Bruno, nemico dichiarato del timbro aggressivo e metallico dei moderni rullanti e delle casse per banda (per non parlare degli elementi di batteria), si cimenta anche nella costruzione di questi due strumenti, utilizzando esclusivamente materiali “antichi” (fasce di ottone, pelli di capra, di capretto e di castrato, fili di budello, tiranti di corda etc.) e cercando di ottenere il suono cupo e ronzante dei tamburi di una volta. 

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Il tamburello

 

Il tamburello, membranofono di primaria importanza nella musica per il ballo della Calabria meridionale, è un altro strumento di cui non è possibile individuare rigidi standard per quanto riguarda le dimensioni e il timbro: è ottenuto con una cornice di legno di faggio a forma di cerchio spessa pochi millimetri sulla quale viene tesa, con l’aiuto di colla, chiodi e di un “sopracerchio”, una pelle di capra (ma la maggior parte dei suonatori vanta le superiori virtù della pelle di gatto), adeguatamente conzata con sale e/o allume e ripulita - ma non sempre - del pelo. Il numero dei piattini metallici (landi,ciancianeddi) che sono sistemati a due a due in ciascuno degli alloggiamenti ricavati nella cornice è anche variabile (gli alloggiamenti possono essere 5, 6 , 7 o più, le coppie di piattini possono essere in doppio ordine). Le tecniche con cui si suona il tamburello cambiano da zona a zona e da suonatore a suonatore; l’impugnatura dello strumento con una mano che lo afferra dalla parte bassa della cornice e la percussione con l’altra mano è comunque invariabile. Bruno, con l’aiuto del suo abile padre, costruisce tamburelli che, su richiesta, possono essere anche di grandi dimensioni (fino a 50 centimetri di diametro).

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Il doppio flauto

 

Appartiene di solito al novero degli strumenti musicali autocostruiti e rappresenta una manifestazione notevole del sapere musicale ed organologico dei pastori. Aerofono bicalamo formato da due flauti diritti di canna a bocca zeppata con un numero variabile di fori, è utilizzato per suonare un repertorio che coincide con quello della zampogna, al punto che in passato ha avuto principalmente la funzione di strumento propedeutico, grazie al quale i bambini si allenavano a diteggiare con le due mani due tubi melodici contemporaneamente. Se non si considerano alcuni repertori particolari (per esempio le suonate che eseguiva Domenico Tropea di Siderno con i suoi frischiotti alla siciliana) si può dire che la canna destra (dritta) ha un ruolo determinante nella costruzione della melodia, la sinistra (manca) ha prevalentemente il compito di fornire un “accompagnamento” armonico-ritmico. La produzione di Bruno, che naturalmente si serve di canna adeguatamente stagionata raccolta nel mese di gennaio in località dal terreno asciutto, comprende fischiotti di diversi tipi. Il doppio flauto che costruiva lo zio Nando Scopacasa, per la sua attuale rarità nella Jonica meridionale, è forse quello che è più importante segnalare in questa sede. Lo strumento, formato da due canne uguali per lunghezza e diametro, riproduce fedelmente l’impianto dei chanter della zampogna a paru (la canna destra ha 6 fori anteriori -4 digitali e 2 di intonazione- e il foro posteriore -falzettu- per il pollice, la sinistra 4 fori anteriori).

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I zambareddi

 

Aerofono bicalamo di canna munito di ance semplici, non riconducibile quindi alla famiglia dei flauti ma, come le launeddas sarde, a quella dei clarinetti. Le due zambaredde, come le canne del doppio flauto, sono imboccate contemporaneamente e contemporaneamente diteggiate dalla mano destra e da quella sinistra (le ance vengono tenute completamente all’interno della cavità orale). Anche questo strumento, che Bruno ha imparato a costruire da pastori della sua zona, replica la scala della zampogna a paru (le cui ance semplici sono pure chiamate zambareddi). Al contrario del doppio flauto che, pur essendo generalmente “ausiliario” e propedeudico, è ritenuto un vero e proprio strumento, i zambareddi , all’interno della cultura musicale rurale della Calabria meridionale, sono trattate alla stregua di un oggetto sonoro di fattura e uso estemporanei.

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I giganti e ”u cavagliucciu”

 

Gli alti e colorati pupazzi di legno , stoffa, cartapesta, segatura e altri materiali che i calabresi chiamano “i giganti” sono un re moro e una regina bionda ( ma una volta a Siderno operava un quartetto con due giganti “regolamentari” e due più piccoli) e formano una coppia sensazionale di ballerini, immancabile in numerose feste della nostra regione. Le persone che si caricano sulle spalle Mata e Grifone (sono questi i nomi più diffusi) e forniscono loro le gambe per ballare possono manovrare dall’interno gli arti superiori e a volte la testa. Le pagine più illuminanti della percezione del suono dei tamburi nelle comunità paesane calabresi e sulle loro funzioni magico-rituali in connessione con il ballo dei giganti non le ha scritte un musicologo né un antropologo ma il grande narratore di Mileto Giuseppe Occhiato. Quella che segue è una citazione da Oga Magoga (Editoriale progetto2000, Cosenza 2000): “…. Altre presenze sottane… avevano invaso il paese e… prosperavano…Forse per sdiregnarle, per farle scappare a squagliasangue ci volevano ora i gigantelli, che solo quelli là, con il loro ardimento, con lo squasso insostenibile dei tamburi e della grancassa, erano capaci di sloggiarle…, di straviarle e mandarle all’erramìa…… ma, al momento, (siamo nel 1943, in tempo di guerra N.D.R.) i due arcontari che facevano? Aspettavano, semplicemente, stando all’oscuro e alliccandosi le ferite, che erano stati feriti per davvero, in mezzo ai calcinacci e ai mille armiggi ammassati nello sgabuzzino semidiroccato; aspettavano che arrivasse il momento di risorgere, spolverati e con le pitture rinnovate, con le mutature nuove belle stirate, di uscire alla luce del sole, di correre e ballare vorticosamente al ritmo folle del tarabràn-tabràn-tabràn per le rughe i vichi di Contura, o per i paesi dei dintorni, di respirare aria, di stare in mezzo ai cristiani, di portare allegria ai ninnuzzi e ai cotrarelli. Non essendoci loro, mancando l’opera loro, quei porcheriosi di mali spiriti, avevano avuto campo libero, ritrovandosi padroni di fare ciò che volevano, di invadere mignani, forni, catoi, svolazzare pazzamente per vichi e viuzze, impestando l’aria con l’appraco delle loro puzzure, entrare e uscire dalle case, andare e venire dal paese……….” Anche il gigante con la gigantessa sta costruendo l’ incredibile Bruno (che si è giovato dell’aiuto iniziale di Sebastiano Giorgi di San Luca, un altro calabrese dotato di abilità manuale e fine intelligenza di mastro), reduce oltretutto dall’allestimento di un’altra impegnativa “macchina scenica” delle nostre feste. Mi riferisco al cavagliucciu ( che in altre zone del reggino è nomato Camiddu o Camiddu i focu) nella sua versione antica, costituito cioè da un nudo scheletro di canne su cui sono disposti dei fuochi artificiali destinati ad esplodere durante il ballo. Perchè ìnfatti il cavagliucciu, governato da un ballerino che dirige i fuochi muovendosi all’interno di una grande rota formata dagli astanti, è protagonista di un pirotecnico rituale di chiusura di molte feste calabresi: una danza infuocata le cui origini, secondo alcuni, si debbono fare risalire alla cacciata dei saraceni dalla Sicilia.

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